Arnaldi Mario Arte
1. La misura del tempo
Si presume che in epoche molto remote il concetto di tempo si fondasse essenzialmente sulla percezione dei fenomeni ciclici naturali, facilmente misurabili ed osservabili. Le popolazioni tribali non avevano bisogno di contare le ore del giorno; era sufficiente capire che il tempo scorreva ciclicamente con i giorni, le stagioni, gli anni. Era sufficiente sapere quando era ‘mattina’ e quando ‘sera’; si mangiava quando si percepiva la fame e per questo non era neppure rilevante conoscere il momento del mezzogiorno. Importava soprattutto conoscere i cicli delle stagioni e facilmente prevederli. In effetti, chiunque può accorgersi dei mutamenti climatici dovuti al cambio delle stagioni o riconoscere il ciclico ritorno della luna piena e, grazie alla levata ed al tramonto del Sole, è facile distinguere un giorno dall’altro. Non è neppure difficile accorgersi che il Sole 'percorre' un arco in cielo passando per un punto mediano che ci permette di distinguere la sua fase ascendente (mattino) da quella discendente (pomeriggio).
L’uomo di quel tempo non aveva a sua disposizione grandi mezzi per rendersi conto di queste leggi astronomiche: egli poteva affidarsi solo all’osservazione diretta del movimento degli astri, dell’allungamento delle ombre e della continua variazione del punto ortivo del Sole e della Luna. Più il Sole spostava il suo punto di levata sull’orizzonte, muovendosi da Est verso Nord, e più calde si facevano le stagioni; nel suo corso giornaliero l’astro disegnava archi sempre più alti ed ampi: più corte erano le ombre di un uomo o di una pietra eretta sul terreno e più lunghe erano le giornate. Di contro, più il Sole spostava il suo punto di levata sull’orizzonte, muovendosi da Est verso Sud, più le giornate diventavano fredde, il Sole percorreva archi sempre più bassi e brevi, più lunga era l’ombra da lui generata e le notti si allungavano accorciando le giornate.
Se in origine l’interesse principale dell’uomo era solo quello di stabilire gli intervalli stagionali per conoscere i tempi della semina e del raccolto, della caccia e della guerra, con la nascita delle prime grandi civiltà ci si rese conto che occorreva creare un calendario preciso che potesse regolare al meglio la vita comunitaria.
I fenomeni astronomici, facilmente riconoscibili, divennero punti cardinali per la definizione dei tempi misurabili. Le lunazioni si ripetevano costantemente e così fu determinata la ciclicità dei mesi, quindi si sentì l’esigenza di suddividere i mesi in settimane o decadi, queste ultime in giorni e i giorni in particelle ancor più minute.
In Mesopotamia, la conoscenza dei moti celesti assunse una grande rilevanza presso le popolazioni assiro-babilonesi che, per la necessità di misurazioni temporali accurate, furono le prime a suddividere la giornata in piccole parti: quelle che oggi chiamiamo ore.
È ormai noto - grazie ai fortunati ritrovamenti in area mesopotamica avvenuti già nel secolo XIX- che molto tempo prima della distruzione di Ninive (607 a.C.), gli antichi Babilonesi e gli Assiri solevano dividere il nychthemeron (cioè il giorno intero generato da una completa rotazione terrestre) in dodici parti uguali chiamate Kaspu ovvero Bēru (Danna, presso i Sumeri). Dalla lettura delle tavolette d’argilla contenenti i rapporti che i sacerdoti di Ninive inviavano costantemente ai re assiri, si evince che l’unità di misura temporale allora utilizzata soprattutto per il computo astronomico, corrispondeva esattamente a due delle nostre ore moderne e, come scrivono Sesto Empirico e Macrobio, sicuramente questa unità era misurata con strumenti ad acqua (clessidre) raggiungendo anche una certa precisione.
In seguito i Babilonesi conobbero dagli Egizi, probabilmente per via siriana, la divisione del giorno luminoso in dodici ore, e la adottarono anche per gli usi civili. Tuttavia il Bēru restò l’unità di misura immutabile durante l’intero anno.
Il Bēru era diviso in Uš ovvero Geš e Ninda ovvero Gar. Ogni bēru era composto da 30 uš, ogni uš conteneva 60 ninda. Queste unità temporali servivano, almeno fino al secolo VIII a.C., per misurare la lunghezza dei giorni durante l’anno, per tenere conto del movimento degli astri e per il computo dell’asarri.
Questa particolare divisione del giorno sopravvisse anche in epoca romana, soprattutto per fini astrologici (l’astrologia era molto praticata nell’antica Roma), e si ritroverà nel medioevo in numerosi orologi solari sparsi in tutta Europa, soprattutto a partire dal secolo XII.
Il computo temporale nell’antico Egitto è tuttora poco chiaro. Le pochissime fonti antiche ci tramandano essenzialmente due metodi, entrambi basati sulla divisione del nychthemeron in ventiquattro parti, dodici per il giorno e dodici per la notte: uno considerava ‘giorno’ quel tempo che andava dall’inizio del crepuscolo astronomico del mattino fino alla fine del crepuscolo astronomico vespertino, l’altro considerava ‘giorno’ l’effettiva presenza del Sole sopra l’orizzonte. La notte del primo metodo, quindi, incominciava con l’inizio del buio profondo, mentre quella del secondo iniziava con il Sole calante sotto l’orizzonte e finiva con la sua levata sull’orizzonte opposto. Non sappiamo se uno dei due metodi abbia preceduto l’altro; esistono idee differenti in proposito.
I Greci iniziarono ad usare le ore solo nel 350 a.C., mentre i Romani solo in seguito all’acquisizione della scienza greca, ma non prima del secolo III a.C. Censorino (secolo III) scrisse che i Romani giunsero alla conoscenza della divisione delle dodici ore del giorno e della notte solo dopo l’introduzione degli orologi solari a Roma, e comunque non prima di 300 anni dalla fondazione della città. Infatti, dalla lettura del corpus giuridico delle Leggi delle dodici tavole, redatto negli anni 451-450 a.C., risulta evidente che a quel tempo i Romani non conoscevano ancora le ore, ma una semplice partizione del giorno luminoso in due sole porzioni, dette ante meridiem e post meridiem, che si concludevano con la suprema tempestas quando il Sole era al tramonto.
Secondo alcuni autori il primo orologio solare di Roma fu collocato presso il tempio di Giove Quirino nel 293 a.C. da Lucio Papirio Cursore, secondo altri in Campidoglio, altri ancora scrissero presso il tempio di Diana in Aventino, ma è certo che i Romani non ne conobbero l’uso prima del 263 a.C., quando il console Gaio Menio Valerio Messalla ne portò uno da Catania, come bottino di guerra, e lo collocò sulla colonna presso i rostri del Foro. Ma anche allora la conoscenza degli orologi solari a Roma era così scarsa che questo solarium svolse la sua funzione pubblica per ben novantanove anni prima che ci si rendesse conto che essendo stato costruito per la latitudine di Catania non poteva mostrare le ore di Roma correttamente.
Nell’antica Roma il giorno si definiva in due modi: 'civile' e 'naturale'. Il giorno 'civile', durava ventiquattro ore ed il suo computo iniziava dalla mezzanotte per terminare alla mezzanotte successiva. L’uso che se ne faceva era prettamente amministrativo, giuridico e a volte anche astrologico; non era un sistema orario e quindi non serviva alla normale misura del tempo. Il computo del giorno di uso comune, detto 'naturale' o 'vero', invece, iniziava con la levata del Sole e terminava al tramonto dividendo lo spazio intercorrente in dodici frazioni chiamate 'ore'. Queste scandivano il tempo anche nel periodo notturno, ma nell’uso corrente si consideravano solo quattro vigiliae o custodiae, composte di tre ore ciascuna. Il 'giorno' e la 'notte' non erano definiti dalla presenza o dall’assenza della luce, ma dalla presenza o dall’assenza del Sole sull’orizzonte.
Il nychthemeron era suddiviso in vari periodi che, partendo dalla mezzanotte, prendevano il nome di: de media nocte (appena passata la mezzanotte), seguito dal gallicinium (quando il gallo inizia a cantare, cioè all’inizio della quarta vigilia), poi dal conticinium (quando il gallo finisce di cantare), seguito dal tempo detto ante lucem e poi diluculum (quando il Sole non ha ancora raggiunto l’orizzonte , ma già l’aria è illuminata: l’aurora); il secundum diluculum era chiamato mane ed iniziava con il Sole all’orizzonte, dopo di che ad meridiem, meridies (la metà del giorno) e de meridie, quindi ecco suprema, verso il tramonto del Sole, e dopo suprema seguiva vesper (poco prima del tramonto), quindi crepusculum, poi un tempo chiamato luminibus accensis o prima face, (cioè quando si accendono le fiaccole e le lanterne), quindi il concubius (quando ognuno si ritira), poi intempesta nox, che comprendeva le sei ore centrali della notte ed era composta dai periodi ad mediam noctem, media nox e de media nocte.
Dalle Noctes Atticae di Aulo Gellio (Roma circa 115 d.C. - 165 d.C.) veniamo a conoscenza che Marco Terenzio Varrone (Rieti 116 a.C. - 27 a.C.) nel suo libro Antiquates rerum humanarum scrisse un capitolo dedicato alla definizione del giorno natale. Spiegando il passo varroniano e, riprendendo anche le notizie date da Plinio il Vecchio (Como circa 23/24 d.C. - Stabia 79 d.C.) nel libro II, capitolo 79 del suo Naturalis Historiae, Gellio fa notare che sebbene il giorno ‘civile’ dei romani si contasse a partire dalla mezzanotte fino alla mezzanotte successiva, altre popolazioni consideravano diversamente l’inizio del giorno: gli Ateniesi, per esempio, iniziavano a contare le ore dal tramonto del Sole fino al tramonto successivo (ab occasu), i Babilonesi, dalla levata del Sole fino a quella successiva (ab ortu), gli Umbri dal mezzogiorno al mezzogiorno successivo (a meridie).
Nel Medio Evo tutto rimane pressoché invariato rispetto all’antichità, cambiano solo alcune definizioni e qualche consuetudine. Quello che Censorino chiamava 'giorno naturale' e che si misurava dalla levata del Sole fino al suo tramonto, fu definito da Isidoro di Siviglia (sec. VII) ‘improprio’; da Beda il Venerabile (sec. VIII) ‘comune’ o ‘ordinario’; Guglielmo di Conches (sec. XII) lo chiamò ‘usuale’ o ‘usabile’; ancor più comunemente fu definito ‘artificiale’.
Il giorno composto da ventiquattro ore, quello che i Romani chiamavano ‘giorno civile’, cambiò nome e fu detto ‘giorno legittimo’ o ‘effettivo’ da Isidoro, ‘legittimo’ e ‘naturale’ da Beda e così anche da Rabano Mauro abate di Fulda nella prima metà del secolo IX. Era ‘naturale’ anche per lo pseudo Beda del Divisionibus temporum, e lo fu anche per lo pseudo Bridferth di Ramsey (sec. X), Per Onorio d’Autun (sec. XII), Guglielmo di Conches e Vincenzo di Bovais (sec. XIII).
Il nychthemeron iniziava con la levata del Sole e le parti del giorno naturale non furono molto diverse da quelle del ‘giorno civile’ dell’antica Roma. La porzione diurna si divideva in tre parti: mane (dalla levata del Sole fino alla fine della quarta ora), meridies (dalla fine della quarta alla fine dell’ottava, e suprema (dalla fine dell’ottava fino al tramonto). Il periodo notturno si divideva in sette parti di lunghezza variabile: vesper (al tramonto), crepusculum (subito dopo e per circa un’ora), conticinium (allo scadere della prima vigilia), intempestum (le ore centrali della notte), gallicinium (allo scadere della terza vigilia ovvero alla fine della nona ora della notte), matutinum (poco prima dell’aurora) e diluculum (all’aurora).